Al mondo, ormai, ci sono due modi di concepire l’agricoltura. Da una parte, c’è quella standardizzata, totalmente orientata sui profitti, disinteressata alla preservazione delle differenze fra contesti locali ambientali e culturali. Dall’altra, quella di comunità legate ai territori, che contrappongono alla prima il modello della sovranità alimentare e che, per il momento, nutrono ancora la maggior parte degli abitanti di questo pianeta; in due parole: l’agricoltura contadina. Quale avrà un futuro? E quale ce ne darà più probabilmente uno di cui parlare?

A farsi questa domanda e a trattare l’argomento, affrontando questo vero e proprio conflitto su tre temi centrali (sementi, terra e lavoro) è da qualche tempo un libro che consiglio vivamente: “Terra e futuro. l’agricoltura contadina ci salverà”. Edito da Eurilink, questo volume analizza temi di primaria importanza quali i brevetti sulle sementi e la “privatizzazione della vita”, l’impoverimento genetico e l’invasione degli Ogm, la quasi-estinzione delle api e il land-grabbing. E ancora: la vendita del demanio agricolo in Italia, le normative igienico-sanitarie che escludono le produzioni contadine e penalizzano i circuiti locali dei mercati a vendita diretta. Ma anche la PAC, Politica Agricola Comune, a cui sono destinate cifre enormi: oltre la metà dei fondi Ue.

Ho pensato di fare qualche domanda all’autore di questo libro, Sergio Cabras, che da molti anni si occupa attivamente di questi argomenti.

Sergio, cosa ti ha spinto a scrivere questo libro? È così grave la situazione attuale, a livello globale?

A scrivere il libro mi ha spinto essenzialmente la mia esperienza diretta: dall’inizio degli anni ’80 partecipo ad una realta’ di occupazione e recupero di terreni e casolari rurali demaniali abbandonati in Umbria (sul Monte Peglia) che nonostante veda ormai da quarant’anni un gruppo di persone essersi autocostruiti una vita, un’occupazione ed una economia sostenibili, aver salvaguardato il territorio ed aver mantenuto e restaurato i soli 15 casolari tuttora in piedi dei 140 ricadenti (e’ il caso di dire) sotto l’amministrazione della locale Comunita’ Montana, non e’ mai stata riconosciuta nemmeno garantendogli una vera  regolarizzazione legale da parte degli Enti pubblici. Da 32 anni cerco di vivere come un (neo)contadino vendendo i miei prodotti, ma mi sono sempre dovuto confrontare con le normative vigenti (soprattutto igienico-sanitarie) e le politiche agricole che sono concepite a misura dell’agroindustria mettendo le piccole produzioni alimentari artigianali in una condizione di sostanziale illegalita’ richiedendo strutture ed attrezzature sproporzionate che noi piccoli produttori non possiamo permetterci. Tutto cio’ mi ha spinto a scrivere questo libro nel tentativo di dimostrare e documentare come e quanto la prospettiva di semi-estinzione che si trova davanti l’agricoltura contadina non sia per nulla  l’effetto collaterale inevitabile di un presunto passaggio evolutivo “naturale” nell’ambito del cosiddetto “sviluppo” dell’agricoltura, bensi’ il portato di una precisa visione e volonta’ politica del modello agricolo da favorire. Lo stesso modello che, a livello globale, ha gia’  portato alla perdita dell’80% dell’agrobiodiversita’, quindi ad una fortissima riduzione delle possibilita’ di adattamento delle colture ai diversi ambienti e di risposta ai cambiamenti climatici; ha portato, in seguito alla meccanizzazione ed all’uso dell’agrochimica e di enormi apporti d’irrigazione, alla perdita dello strato fertile dei suoli; ha portato all’impoverimento delle comunita’ contadine (causa prima dell’emigrazione) fino alla loro espulsione dalle terre che hanno sempre abitato per far posto a coltivazioni immense destinate non a produrre cibo, ma a quell’illusione green-economycista che sono gli agrocarburanti,come avviene oggi col fenomeno neo-coloniale del land-grabbing.

Come ci può salvare l’agricoltura contadina? Parli più di ambiente, di società, di sovranità? In altre parole, cosa si rischia maggiormente con il totale abbandono dell’agricoltura di sussistenza?

L’umanita’ vive a tutt’oggi per il 75% di cibo prodotto su base locale e con tecnologie solo molto limitatamente meccanizzate e credo sia questo che ancora salva questo pianeta. Qualcuno ha detto che l’agricoltura moderna e’ l’uso della terra per trasformare petrolio in cibo.Questo e’ certamente vero se lo vediamo dal punto di vista energetico, ma bisogna considerare che due terzi dell’energia totale impiegata per le colture industriali viene persa nel processo rispetto al risultato in valore calorico dato dal raccolto e, nel processo, anche una parte della fertilita’ del suolo viene persa. Inoltre sappiamo che circa un terzo del cibo prodotto nel mondo va sprecato. E’ evidente che il modello agroindustriale orientato al cieco sfruttamento dei suoli ed unilateralmente al profitto non e’ sostenibile e non ha futuro. Per di piu’ e’ uno dei maggiori fattori climalteranti. Poter scegliere di seguire modelli agricoli alternativi e’, per i Paesi, un fatto di sovranita’ nazionale – che pero’ e’ messo fortemente in dubbio dagli accordi internazionali dell’OMC e dalle politiche di “aggiustamento strutturale” della Banca Mondiale e del FMI – e, per i popoli, una questione di pluralisno e di democrazia. Dobbiamo poter scegliere il nostro modello di produzione e distribuzione del cibo, di interazione con gli ecosistemi (anche e soprattutto questo e’ l’agricoltura) ed eventualmente quale tipo di rischi igienico sanitari crediamo piu’ accettabile correre (negli ultimi decenni questo tipo di problemi son venuti sempre e solo dalle industrie agroalimentari e non dai piccoli produttori). Anche nei paesi sviluppati una agricoltura di sussistenza aggiornata alle condizioni attuali credo sia un’importante risorsa da reinventare (non “a cui tornare”, perche’ non si “torna” mai). Con la crisi manifesta dell’economia attuale e la carenza ormai strutturale di posti di lavoro sarebbe utile ricordare che l’economia contadina e’ sempre stata un’economia ibrida in cui si affiancava una parte importante di autoproduzione (alimentare ma non solo), una di piccola vendita diretta dei propri prodotti ed altre attivita’ lavorative ad integrazione del reddito. Queste erano spesso extraagricole (artigianato, edilizia, falegnameria, meccanica e perfino attivita’ artistiche): oggi che l’essere contadini e’ una scelta e non un percorso obbligato dalla nascita, vi si possono affiancare anche attivita’ che richiedano una formazione professionale medio-alta, ma in cui la riduzione, per molte persone, della dipendenza assoluta da uno stipendio, aumenterebbe la disponibilita’ di posti di lavoro (rendendo sufficienti impieghi part-time) e diminuirebbe anche il potere dei sistemi che possono dare questi posti di lavoro sulla vita della gente. Mi sembra che sarebbe una risposta alla crisi ed al tramonto dell’epoca dell’impiego sicuro a vita, di gran lunga preferibile alla rincorsa attuale di colloqui e concorsi, improbabili corsi di formazione ed assunzioni precarie e a termine alternate a periodi di disoccupazione.

Nel libro parli anche di Ogm. dato che da tempo vediamo tutti gli sforzi delle principali istituzioni (europee e non) per promuoverli, non pensi che quella contro di essi possa essere ormai una lotta vana?

Dall’atteggiamento dell’Europa sulla questione OGM si capisce quanto potenti siano le lobby delle aziende che hanno enormi interessi in questo campo. Come su altri temi (tra cui alcuni inerenti la nuova PAC) l’Europa rinuncia al proprio essere Unione pur di salvare capra e cavoli: cio’ che sarebbe politicamente ragionevole (mantenere il valore aggiunto di un’agricoltura europea OGM-free) e la convenienza di non scontentare le lobby. In pratica si accettano le colture OGM in linea generale, ma si lascia liberta’ di decidere ai singoli Stati membri, salvo poi che un singolo agricoltore puo’ rivendicare il diritto di coltivarle appellandosi alle deliberazioni europee (come e’ successo in Friuli). Ci sono OGM che rischiano di ottenere l’approvazione per una sostanziale tacita non-opposizione degli Stati membri e ci sono vuoti normativi che permettono alle multinazionali di richiedere un brevetto esclusivo solo per aver descritto in modo scientifico il processo di produzione tradizionale di prodotti  (non OGM) che sempre ci sono stati, ma la cui tecnica non era stata codificata. In attesa di avere campo libero per gli OGM intanto le multinazionali biotech in Europa si stanno concentrando sulla brevettazione ed il controllo commerciale delle varieta’ non transgeniche, cosa peraltro molto favorita dall’obbligo di registrazione delle sementi al Catalogo Varietale. Il baluardo dell’UE contro l’invasione transgenica che gia’ ha colpito i campi di buona parte del pianeta e’ tuttora il “principio di precauzione”, ma se saranno approvati gli accordi TTIP attualmente in discussione per una sorta di mercato comune USA-UE anche questo molto probabilmente saltera’. Intanto gia’ quantita’ enormi di prodotti contenenti OGM vengono importati e consumati sia negli alimenti che nei mangimi per gli animali che mangiamo. Se quella contro gli OGM sia ormai una lotta vana non lo so, diciamo che non mi piace l’idea di rassegnarmi a qualcosa che potrebbe avere conseguenze molto pericolose e a solo beneficio di poche multinazionali gia’ fin troppo ricche e potenti.

Quali alternative ci sono al modello agricolo intensivo?

Piu’ che intensivo direi industriale, monocolturale-estensivo e basato sui combustibili fossili. Le alternative dipendono, dal lato dei politici e di chi li elegge (sempre che ce li rifacciano eleggere, prima o poi) dalla volonta’ politica di scegliere un modello diverso: premiare col sostegno diretto della PAC alle aziende quelle a maggiore intensita’ di lavoro e competenze anziche’ di capitali investiti e meccanizzazione e finirla col principio del “disaccoppiamento” dalla produzione che di fatto premia la rendita fondiaria; sostenere in primo luogo le aziende piccole a conduzione diretta piuttosto che quelle imprenditoriali in cui lavorano solo dipendenti; favorire sistemi colturali agroecologici anziche’ a forte impatto ambientale (dei cui effetti non si tiene conto nel prezzo al consumo dei prodotti); sancire diritti collettivi degli agricoltori sulle sementi e sulle razze locali anche in termini che ne impediscano la brevettabilita’ per interessi commerciali privati; destinare i terreni agricoli pubblici non alla vendita bensi’ all’affidamento a chi vuole ripopolare le zone rurali con attivita’ di agricoltura contadina; riconoscere attraverso leggi e politiche favorevoli le ricadute positive ad ampio spettro di questo specifico tipo di attivita’ agricole nella salvaguardia dei territori e del paesaggio, nella protezione della biodiversita’, nella manutenzione degli equilibri idrogeologici, come possibilita’ di autooccupazione…; varare normative igienico-sanitarie sulla trasformazione e la vendita dei prodotti contadini adeguate e commisurate alla dimensione delle produzioni ed ai reali rischi potenziali che non sono certamente gli stessi delle produzioni industriali (vedi anche la proposta di legge su www.agricolturacontadina.org); leggi adeguate anche su molti altri aspetti della vita contadina attuale, come in materia di urbanistica, ospitalita’ rurale, scambio-lavoro tra contadini, macchine agricole di seconda mano, fiscalita’, previdenza, servizi pubblici nelle zone montane e marginali, ecc…

Dal lato invece della gente in generale l’alternativa e’ quella di rendersi conto dell’importanza di sostenere concretamente chi sceglie di fare della propria vita e lavoro un’alternativa contadina al sistema oggi imperante. Questo e’ possibile attraverso le proprie scelte negli acquisti, preferendo  comprare cibi sani da piccole aziende di prossimita’, nei mercati contadini, attraverso i GAS o direttamente in azienda, o anche praticando direttamente l’alternativa, partecipando ai gruppi di orti urbani e comunitari o comunque autoproducendosi una parte degli alimenti ed altri beni utili alle proprie necessita’.

Cosa rispondi a chi ti dice che sostenendo queste tesi ti opponi allo “sviluppo”?

Secondo le varie epoche e culture umane ci sono sempre stati concetti dapprima utili a descrivere i mutamenti in atto, ma che in seguito diventano delle idee fisse, ideologiche, che si continua a ripetere e riproporre in modo fideistico, quasi superstizioso, senza piu’ chiedersi cosa significhino davvero, se ancora servano a descrivere qualcosa di reale o se invece, col mutare delle condizioni, abbiano perso il loro significato originale e ne abbiano assunto di fatto un altro, ed un’altra funzione: magari quella di nascondere l’incapacita’ di immaginare soluzioni adeguate alle nuove condizioni e l’incoffessabilita’ di interessi forti legati al mantenimento dello status quo che vogliono mantenersi dominanti nonostante la manifesta insostenibilita’ del loro modello di riferimento. Io credo, mi sembra evidente ormai, che cio’ che va sotto il nome di “Sviluppo” (ma sarebbe piu’ esatto parlare di “sviluppismo” perche’ si tratta di un’ideologia), con la sua sorella gemella, la “Crescita”, sia proprio una di queste idee fisse, che pero’ ha fatto il suo tempo. In realta’ siamo gia’ nell’epoca del post-sviluppo: molti la chiamano “La Crisi”, ma credo che dovremmo vederla come l’occasione per un ridimensionamento necessario ed inevitabile entro forme di economia piu’ normali, nel senso di piu’ sostenibili per il pianeta. Cio’ avvera’ comunque: sta a noi rendere questo ridimensionamento un passaggio evolutivo anziche’ una immane tragedia. Chi immagina soluzioni sensate e praticabili per l’insieme dei popoli e degli esseri che oltre a noi ci vivono, ma anche, tuttosommato, per i nostri stessi limiti sani ed umani di sopportazione degli stress, degli inquinamenti e della progressiva e pericolosa perdita di senso in cio’ che facciamo ogni giorno, chiama queste soluzioni  “Decrescita”. Io penso che l’agricoltura contadina, che e’ stata per 10.000 anni il modello economico sostenibile che ha permesso – con tutte le varianti di forme e di epoche – agli esseri umani di vivere in ogni tempo ed ogni luogo della Terra sia oggi, pur con tutti gli aggiornamenti del caso, l’elemento chiave per una decrescita possibile ed alla portata della maggioranza delle persone. Percio’ penso che, se qualcosa ci potra’ salvare, questa sara’ l’agricoltura contadina.

Se volete restare aggiornati sull’argomento, vi consiglio, oltre alla lettura di questo ottimo libro, di seguire il blog di Sergio: http://www.ecofondamentalista.it/ e la pagina Facebook del libro.

Andrea Bertaglio

Fonte: GreenMe.it

One thought on “Il futuro è l’agricoltura. Ecco chi ce l’ha fatta”

  1. Mi fa piacere leggere queste parole di Cabras. Io e mio figlio stiamo, seppur da solo un anno, la stessa esperienza e siamo arrivati alle stesse conclusioni. Dei tanti fronti di battaglia, sono un po stupito dell’apatia verso questi temi da parte di coldiretti e CIA, che pensavo di avere al mio fianco. Sono poi disgustato dal PSR Piemonte, sul quale speravo per poter lanciare l’attività. Invece per ora solo tanto lavoro, poco o nulla guadagno e tante tasse e soprattutto una gabbia burocratico – amministrativa che ci spinge al lavoro sommerso ed all’evasione fiscale. Sono diventato ancora più anti-stato da quando faccio l’agricoltore…

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