Di Karl Krähmer, copresidente MDF

Questo è un articolo di parte. Un articolo scritto con rabbia. E mi va bene se lo prendete e criticate come tale. Ma è anche un articolo di profonda convinzione, basato su 10, 15 anni di riflessioni, osservazioni e ricerche. Ma non è un articolo scientifico e non lo vuole essere.

Per quanto da molto tempo mi interroghi sui luoghi che abitiamo e in questo la questione della mobilità abbia sempre giocato un ruolo importante, lo spunto per questo articolo è recente. Da un po’ di tempo nel Movimento per la Decrescita Felice stiamo approfondendo il fondamentale contributo del femminismo (o dei femminismi) al dibattito sulla decrescita. Per questo alla nostra assemblea nazionale di maggio (https://www.decrescitafelice.it/2023/06/assemblea-nazionale-mdf-la-voglia-di-apertura-e-limportanza-della-politica/) abbiamo invitato Mackda Gebremariam Tesfau di Capovolte (https://capovolte.it/) e Paolo Gorgoni aka Paula Lovely (https://dragtivismfortransformation.wordpress.com) a tenere per noi un laboratorio su femminismo e intersezionalità. Di questo laboratorio bellissimo e molto arricchente mi è rimasta in testa la richiesta di Mackda: “Pensate a una cosa che vi opprime”. Io iniziavo a riflettere sulla mia posizionalità da maschio bianco europeo, di classe media, omosessuale ok, ma tutto sommato molto privilegiata e al fatto che ci fosse (fortunatamente) molto poco che nella mia vita di tutti i giorni mi opprimesse. Ma poi una cosa mi è venuta in mente: l’automobile. O meglio la società dell’auto, la massiccia presenza ovunque dell’auto, l’organizzazione degli spazi che abitiamo e della vita che conduciamo in funzione dell’auto. Non voglio ovviamente con questo sminuire in nessun modo le oppressioni spesso molto più immediatamente violente che vivono nella nostra società persone di un altro genere, di un altro colore della pelle, più povere, con un’altra cittadinanza e così via. Ma leggere il tema della mobilità con questa chiave di lettura femminista, come oppressione e violenza strutturale mi ha aperto gli occhi in modo nuovo e ha dato una forma e un linguaggio a una rabbia e frustrazione che quotidianamente sento. Questa nuova lettura vorrei condividere qui con voi.


L’auto produce morte

Che cosa intendo se parlo della violenza strutturale dell’auto o della società dell’auto?

Cominciamo dall’aspetto più lampante: L’auto produce morte. E la produce in almeno quattro modi distinti.

Come tante altre cose, produce morte in alcuni passaggi della sua produzione. Pensiamo all’estrazione di minerali – anche di litio e cobalto per le batterie per l’auto elettrica, che non è la soluzione perché produce magari un po’ meno di emissioni di gas serra ma nella estrazione dei materiali necessari per la sua batterie causa numerosi altri impatti (https://camoscibianchi.wordpress.com/2021/09/17/le-molte-ombre-e-poche-luci-del-progetto-punta-corna/) e sociali. E pensiamo soprattutto alle violenze e all’inquinamento legate all’estrazione di petrolio, fondamentale per la società dell’auto, (https://www.saluteinternazionale.info/2011/04/petrolio-e-salute-il-caso-del-delta-del-niger/) e ai danni ambientali e di conseguenza sociali quando qualcosa va storto nella sua estrazione in Nigeria (https://www.geopolitica.info/delta-niger-petrolio/) come in Amazzonia (https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/10/05/news/benvenuti_al_toxic_tour). Impatti che vanno dall’espulsione di popolazioni indigene, l’inquinamento di acqua e di raccolti al disboscamento e la morte violenta di animali nelle aree di estrazione e in mare, quando una petroliera naufraga.

In secondo luogo, l’auto produce morte perché contribuisce, come fattore cruciale, alla crisi climatica; in Europa i trasporti sono l’unico settore che negli ultimi tre decenni ha aumentato le sue emissioni raggiungendo un quarto del totale, di questi più del 70% derivano dal trasporto stradale, di cui a sua volta più del 60% è causato dalle automobili (https://www.europarl.europa.eu/news/en/headlines/society/20190313STO31218/co2-emissions-from-cars-facts-and-figures-infographics). Ma poi l’auto in realtà non contribuisce alla crisi climatica non solo per le sue emissioni dirette ma anche perché permette uno stile di vita fortemente insostenibile: svincoli autostradali, villette, centri commerciali.

 

 

E poi le macchine producono morte attraverso l’inquinamento dell’aria di cui nelle nostre città sono la causa principale – pensiamo a Torino, con circa 900 morti premature annue (10 mila in tutta Italia) (https://www.editorialedomani.it/ambiente/ultime-notizie-ambiente-famiglia-di-torino-denuncia-comune-per-inquinamento-ferdinando-cotugno-m188f62z), oltre a causare numerosi altri problemi di salute (https://www.torinorespira.it/effettisanitari/). Questo inquinamento poi riguarda in modo molto diseguale le persone: spesso vicino alle strade più trafficate e ai piani più bassi i valori immobiliari scendono e vi abitano le persone più povere che meno beneficiano della mobilità in auto; altrettanto bambine e bambini sono particolarmente affetti dagli impatti dell’inquinamento, più delle persone adulte (https://www.torinorespira.it/approfondimenti/azioni-legali/alto-rischio-bambini/).

E infine l’auto produce morte in modo diretto e immediato, uccidendo per strada, uccidendo chi va in auto e poi pedoni e cicliste che necessariamente, per cause fisiche, sono più deboli di tonnellate di acciaio che si muovono a alte velocità. In Italia nel 2022 più di 3 mila persone sono morte per incidenti stradali (https://www.istat.it/it/archivio/286942). Trovo paradossale come ci si lamenta molto degli incidenti causati da monopattini o bici: certamente ci sono e c’è chi usa questi mezzi in modo spericolato ma è molto diverso essere investiti da un monopattino o una bici che si muove a magari massimo 20 km/h con una massa molto piccola che può far male ma molto difficilmente uccidere. La massa molto più grande di una macchina che si muove a 40, 50, 70 km per una banale questione fisica uccide molto più facilmente. Come mostra l’infografica della Commissione Europea, sono le auto a trascinarsi dietro una scia di morte negli incidenti in UE, molto più di qualsiasi altro mezzo.


La violenza strutturale dell’auto

Così l’auto produce morte, ma la sua violenza strutturale va oltre la morte che produce. La violenza strutturale è una forma di violenza che non emana direttamente da un atto specifico ma nasce piuttosto dall’organizzazione sociale in cui ci troviamo, dalle ingiustizie e disuguaglianze della società con le conseguenze più varie (https://www.google.com/url?sa=t&rc). E così accade per una società focalizzata sull’auto. Nella società dell’auto, l’onnipresenza dell’automobile, non scelta da nessuno nello specifico, è uno strumento di oppressione sui nostri corpi che limita la nostra libertà tutti i giorni.La libertà di chi non la usa ma veramente anche di chi la usa. Limita la libertà di usufruire dei nostri spazi pubblici nelle città serenamente. Limita la nostra libertà di respirare aria pulita. Limita la nostra libertà (e quella di altre e altri nel resto del mondo) di godere di un ambiente sano e ovviamente questi impatti sono socialmente molto iniquamente distribuiti, come ci permette di analizzare una lente di osservazione femminista.

La violenza sta anche nel fatto della normalizzazione di queste morti: molte (se sono arrivate fin qui), leggendo avranno pensato: Sì, ok, ma è necessaria, l’auto ci serve, che ci si può fare?

Ma non è così. La storia dell’umanità per il 99,9% della sua durata è andata avanti senza auto. E per il 99,95% della sua storia senza auto come fenomeno di massa, universalmente diffuso (almeno nelle nostre società del nord globale ma sempre più in espansione in paesi come la Cina e l’India). Solo da dopo la seconda guerra mondiale l’auto è diventata la normalità nel mondo occidentale, trasformando non solo le nostre abitudini ma anche gli spazi in cui abitiamo, le nostre città e i nostri territori. Non sarebbero pensabili le villette, i capannoni e capannoncini, le autostrade ed i parcheggi, gli svincoli e i centri commerciali che occupano le nostre pianure, i nostri fondovalle senza questa trasformazione della società europea (e nordamericana, australiana ecc.) in una società dell’auto. Tutte costruzioni che non solo hanno distrutto territori, devastato paesaggi, consumato suolo, cementificato, usando quantità immonde di materiali preziosi, ma che sono anche la manifestazione fisica dell’insostenibilità della nostra società della crescita, oltre qualsiasi limite di sostenibilità, che è fondamentalmente una società dell’auto.

Figura 1: La desolazione di un parcheggio di un centro commerciale: è valsa la pena trasformare territorio in questo modo? (Foto da: https://www.publicdomainpictures.net/it/view-image.php?image=138771&picture=car-park-2)

Pensiamo allo spazio delle nostre città, dei nostri territori: quanto spazio è occupato per auto in movimento e per auto parcheggiate? Auto che in media stanno ferme circa 23 ore al giorno. Le auto occupano infinitamente più spazio della strada di altri mezzi, anche perché solitamente ci si viaggia da soli, come illustra efficacemente quest’immagine di un esperimento realizzato decenni fa dalla città di Münster in Germania:

Ma anche per chi in macchina ci va: è davvero desiderabile questa situazione? Quanto tempo perdete cercando parcheggio o fermi nel traffico? Quanta frustrazione accumulate perché non riuscite ad andare avanti? Quanti soldi spendete per comprare e mantenere l’auto, per bollo, assicurazione, benzina, parcheggi, autostrade? Ne vale davvero la pena? E anche voi vivete spazi pubblici e territori devastati, respirate aria cattiva (moltissima nell’abitacolo)…

Figura 2: Scena stradale a Roma: spazio pubblico di qualità? (Foto da: https://www.made-by-architects.com/user/u6-robert/buildings/1152-Kirche-Dio-Padre-Misericordioso-in-Italien-Rom-von-Richard-Meier?hl=en)

A tutto questo corrisponde la normalizzazione del possesso e dell’uso dell’auto. Non avendo io, per scelta, la patente, mi viene forse più facile osservarlo: quante volte si dà per scontato che un* l’auto ce l’abbia? Nelle indicazioni per raggiungere un posto, nelle organizzazioni di tempi e orari? Forse vi sembrerà normale ma il mio punto di osservazione mi permette di vederne l’assurdità. Viviamo con un’idea di mobilità che non solo causa morte in tutte le forme sopra descritte ma in più esclude spesso dalla socialità innanzitutto chi l’auto non se la può permettere, chi non la può guidare magari per problemi fisici o perché non ne ha l’età e poi anche chi non ce l’ha per scelta. È un’esclusione che si vive in inviti per feste ed eventi basati sulla disponibilità dell’auto, nell’impossibilità di raggiungere un evento culturale o un monumento storico perché proprio nel fine settimana il bus non c’è o – come spesso accade in questo paese – l’autobus parte cinque minuti prima dell’arrivo del treno che permetterebbe prenderlo perché non c’è la banale capacità di pianificare i sistemi di trasporto pubblico in un modo che siano davvero coordinati ed utilizzabili. Poi questi sono magari dei fatti secondari legati al tempo libero di una persona privilegiata come me e imparando con gli anni sono diventato creativo nel trovare modi per aggirare questi ostacoli (portandomi la bici sul treno e facendo un po’ di km pedalando, facendo l’autostop, trovando un passaggio…) ma certamente queste sono difficoltà che moltissime persone vivono anche nella loro vita quotidiana.

A questo possiamo aggiungere, quando ti muovi a piedi e in bicicletta la poca considerazione che ti viene data nei nostri spazi urbani: ampie aree periferiche senza alcun marciapiede, piste ciclabili che spesso sono discontinue, corrono sui marciapiedi o sembrano essere concepite per una corsa ad ostacoli, aggirando continuamente oggetti e barriere mentre affianco a te il traffico automobilistico scorre liberamente in linea dritta, essendogli assegnata la “naturale” priorità – e non è un caso, si continua a investire moltissimo per l’auto, ad esempio il DEF 2022 del governo italiano ha assegnato 83 miliardi di euro al sistema stradale, incluso il potenziamento ex novo di strade statali e solo 33 miliardi al trasporto pubblico urbano, e appena 2,6 miliardi alle ciclovie (https://mit.gov.it/comunicazione/news/infrastrutture-e-mobilita-pubblicato-lallegato-al-def-2022) – sì, ci sono anche molti soldi per le ferrovie ma questi si concentrano su progetti ad alta velocità molto discutibili come la Torino-Lione di cui il movimento NO TAV ha dimostrato l’inutilità da decenni.


Prospettive: cosa mi mette tristezza

In tutto questo, cercando di guardare alle prospettive di cambiamento, ci sono alcune cose che mi mettono una profonda tristezza.

È così per esempio ogni volta che in un dibattito si criticano trasformazioni come pedonalizzazioni o piste ciclabili come qualcosa di opzionale, come un lusso, che danneggia i negozi o rende la vita più scomoda a chi ci abita. Non riuscendo a vedere che sono degli strumenti fondamentali per un cambiamento strutturale sempre più urgente della nostra società per non soccombere alla crisi climatica. E che possono in realtà migliorare in modo considerevole la qualità della vita, riconquistando le nostre strade e piazze come veri spazi pubblici, per gli incontri del quotidiano.

Certo, questi cambiamenti devono essere negoziati e discussi, devono essere gestibili soprattutto anche per chi ha meno risorse economiche, problemi di deambulazione, lavori per cui l’auto è oggettivamente uno strumento di grande utilità (non mi piace dire necessità perché non lo è stata per la maggior parte della storia umana e tutt’oggi non lo è per la maggior parte della popolazione mondiale). Però sono cambiamenti importanti.

Mi mette tristezza che quando si parla di pedonalizzazioni si dà per scontato che il numero di parcheggi non debba mutare, quando invece la loro riduzione sarebbe una misura politica fondamentale per disincentivare il possesso dell’auto.

Mi mette tristezza quando neanche negli ambienti più radicali che conosco, neanche nel Movimento per la Decrescita Felice per esempio, si riesce a far meno dell’auto. E non parlo di usare occasionalmente il treno, la bici, i mezzi. Parlo di possesso. Del numero di auto in giro. Che deve ridursi radicalmente per superarne davvero la violenza strutturale.

Mi mette tristezza anche che le auto non sembrano ridursi di numero e diventano pure sempre più grandi – non che il piccolo pandino sia buono ma il grande SUV è certamente ancora peggio. Non solo la dimensione e il peso maggiori si mangiano i guadagni di efficienza dei motori più moderni ma diventa anche ancora più rischioso per le altre persone che usano la strada muoversi – anche chi ha un’auto più piccola (diverse amiche me l’hanno detto) si sente in pericolo e quasi indotta a comprare a sua volta un’auto più grandi – e in più si acutizza il conflitto sui parcheggi perché questi mostri della strada occupano ancora più spazio.

Mi mette anche molta tristezza quando da tante parti ci si illude che l’auto elettrica possa davvero essere una soluzione, pensando che possa conciliare la sostenibilità ecologica con la continuazione della società dell’auto. Senza considerare che produce magari un po’ di gas serra in meno e riduce l’inquinamento dell’aria localmente ma in cambio rende necessaria l’estrazione di risorse rare in modo molto impattante, non migliora gli spazi pubblici delle nostre città, continuando ad occupare moltissimo spazio e non riduce i rischi per pedoni e ciclisti e automobiliste stesse di morire nel traffico.


Prospettive: cosa mi dà speranza

Quello che mi dà speranza è che pian piano sta diventando normale anche in Italia, progettando una strada, pensare a una pista ciclabile.

Che in una città come Torino le aree pedonali e ciclabili sono molto aumentate, continuano ad aumentare e anche a migliorare nella qualità, formando piano piano una vera rete.

Che – con tutti i limiti di questi approcci alla sostenibilità urbana che da soli non bastano (https://www.decrescitafelice.it/2021/11/la-citta-della-decrescita-1-parte/) – città come Copenaghen o Amsterdam dimostrano con i loro parcheggi bici stracolmi davanti alle stazioni che si possa gestire diversamente la mobilità:

Figura 3: Parcheggio bici alla stazione centrale di Amsterdam (Foto dell’autore)

Che ci siano numerosissime iniziative in Italia come in altri paesi per riconquistare lo spazio pubblico e renderlo spazio di qualità. Come per esempio con la strategia dei “Super Bloc” a Barcellona, in cui unendo quattro isolati si chiudono al traffico le strade interne che le attraversano, lasciando percorribili alle auto solo le strade esterne:

Figura 4: Un incrocio stradale trasformato in spazio pubblico a Barcellona (Foto dell’autore)

Che (forse, forse) gli strumenti di sharing (di auto o di altri mezzi) per qualcuna possano essere un’alternativa per rinunciare al possesso dell’auto propria e usarla solo nelle poche occasioni in cui è davvero utile.

Che si stiano iniziando a prendere sul serio le leggi che pongono limiti all’inquinamento portando a molte cause legali che obbligano le amministrazioni pubbliche ad agire, ad esempio a Torino (https://www.open.online/2023/07/21/torino-chiusura-indagini-morti-smog/).

Mi dà molta speranza la storia del Collettivo di Fabbrica ex GKN (www.facebook.com/coordinamentogknfirenze) che stra trasformando una fabbrica di componenti per automobili in una fabbrica per la mobilità sostenibile, per cargo bike e autobus elettrici, in alleanza coi Fridays For Future, superando finalmente la finta contraddizione tra ambiente e lavoro.

E poi mi danno speranza le tante mobilitazioni, le manifestazioni come il Bike Pride a Torino (http://bikepride.net/) che trasforma le strade della città in fiumane di biciclette, le critical mass, e il Bike Tour della Decrescita (https://www.decrescitafelice.it/category/bike-tour/), durante il quale la bici diventa un modo per vivere diversamente un territorio e per incontrare realtà di cambiamento.

Figura 5: Occupare diversamente le strade durante il Bike Tour della Decrescita

Ho scritto dell’auto come strumento di violenza strutturale. Non è quindi scelta da nessuna persona nello specifico (anche se ovviamente ci sono delle responsabilità maggiori di chi prende fondamentali scelte politiche ed economiche, siano esse a favore di investimenti nelle strade o la litania del: dobbiamo salvare i posti di lavoro e quindi dobbiamo incentivare l’acquisto di auto) e solo collettivamente ci possiamo ribellare a questa violenza.

Ho speranza che si possa andare davvero oltre la società dell’auto (e credo sia una componente fondamentale della decrescita). E questo non perché detesti l’auto in sé – anzi, credo sia un’invenzione fantastica a livello tecnologico. Assurda è l’idea che tutte e tutti abbiamo la propria automobile. Se ci immaginassimo le nostre città con il 90% di auto in meno, quanto spazio guadagneremmo? Spazio pubblico, spazio per il verde, spazio per un trasporto pubblico molto migliore e per le bici, spazio da cui togliere l’asfalto e coltivare, far defluire l’acqua delle piogge sempre più intense e rinfrescare le città nelle estati sempre più caldi della crisi climatica. Quanto tempo, quanto denaro, quanto lavoro risparmieremmo producendo meno inutili macchine? Quanto ridurremmo gli impatti ambientali e sociali perché costruiremmo molto meno auto, gli impatti delle estrazioni di petrolio, litio, cobalto? Ma anche perché diventerebbe molto poco interessante costruire nuove autostrade, nuovi centri commerciali, nuove villette, nuovi svincoli. Quanti terreni agricoli salveremmo in questo modo? Pensate ai pannelli fotovoltaici che potremmo mettere sulle autostrade diventate inutili, le discoteche che potremmo aprire nei parcheggi sotterranei diventati superflui per poter ballare tutta la notte senza rubare il sonno a chi giustamente vuole dormire.

E il 10% delle auto che resterebbero? Li potremmo usare per quegli scopi per cui sono davvero utili: per spostare oggetti pesanti, per alcuni lavori, per chi ha difficoltà a camminare, per chi vive in luoghi molto isolati, e in modo condiviso per fare un trasloco e altre occasioni.

Un’utopia? Probabilmente. Ma credo che quantomeno passo per passo possiamo andare in questa direzione, lottando per la pedonalizzazione di una strada, conquistando una distribuzione stradale equa (e cioè un terzo, un terzo, un terzo) tra auto, trasporto pubblico e bici e pedoni. E queste cose, almeno in parte, per fortuna, stanno succedendo.

3 thoughts on “La violenza strutturale (della società) dell’auto”

  1. Bellissimo articolo. Una riflessione originale, soprattutto per quanto riguarda il concetto di oppressione: io l’avevo definito un “fastidio”, ma la definizione che lei ha dato è molto più calzante.
    Grazie!

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