Di Karl Krähmer, membro del Direttivo MDF e dottorando al DIST, dipartimento di studi del territorio di Università e Politecnico di Torino

 

Sono attualmente in Cile per il mio dottorato. Sto indagando la geografia delle relazioni commerciali globali della frutta prodotta lì per tutto il mondo. La mia domanda centrale è che cosa se ne può imparare per sviluppare strategie di decrescita a molteplici scale (e non solo a quella locale). Vi racconto qui, in maniera informale, spontanea e poco metodica, alcune mie osservazioni, più o meno legate alla mia ricerca che spero possano interessare a chi legge questo sito.

In questi giorni (metà gennaio 2022) mi trovo generosamente accolto dalla comunità Mapuche di Tralcao, nelle vicinanze di Valdivia, nel centrosud del Cile. Tralcao è un piccolo paese o forse è meglio dire un ampio territorio agricolo con un insieme di case sparse. Sono arrivato qui incuriosito dal fatto che ci fosse una comunità di piccoli agricoltori, prevalentemente di discendenza Mapuche, che produce ciliegie per l’esportazione in Cina. I Mapuche sono uno dei pochi popoli “indigeni” che hanno resistito per molto tempo con successo all’avanzata del colonialismo europeo. Imbattuti dagli spagnoli, solo alla fine del ‘800 lo stato cileno indipendente in espansione è riuscito a conquistare i suoi territori a sud del fiume Bio-Bio, con l’aiuto, spesso violento (terre rubate, Mapuche ammazzati) di coloni europei, soprattutto tedeschi. Oggi sono una forza importante nei movimenti sociali cileni che hanno portato all’elaborazione di una nuova costituzione, attualmente in corso, per superare quella neoliberista approvata nel 1980 sotto la dittatura di Pinochet.

Tornando alle ciliegie, uno potrebbe essere inorridito dal fatto che si esportano ciliegie dal Cile alla Cina. Però il mio viaggio mi fa pensare che è importante differenziare e non pensare semplicemente che questa comunità Mapuche oggi, dopo aver resistito agli spagnoli e aver perso contro i cileni poi, ora si è fatta cooptare dalle forze del capitalismo.

Foto: Karl Krahmer

A Tralcao, la produzione di ciliegie per l’esportazione, cominciata circa vent’anni fa, non è mai stata pensata come attività dominante. Si inserisce infatti in un paesaggio agricolo variegato, in cui si producono anche grano, noci, castagne, mirtilli, lamponi, dove si allevano pecore e mucche e molto altro negli orti.

È un’agricoltura principalmente orientata al consumo diretto e al mercato locale. L’economia locale viene anche promossa con una sagra che si svolge ogni fine settimana nell’estate.

Piantare ciliegie è stata un’idea, promossa in particolare da Pedro Guerra Huechante, che mi fa da guida in questi giorni, per avere un’entrata in più e migliorare le condizioni di vita della comunità. Nessuno si è reso completamente dipendente delle ciliegie (come succede in molti altri casi di agricoltura per l’esportazione nel mondo). Anche se le proprietà famigliari qui sono di pochi ettari, è sempre solo una parte quella dedicata alle ciliegie; tra mezzo e cinque ettari.

Si esportano perché nel mercato nazionale cileno i prezzi sono molto bassi (comunque rimangono qui le ciliegie che per vari criteri – più estetici e pratici rispetto al trasporto che nutrizionali – non possono essere esportati). E si esportano in particolare in Cina (dove va più del 90% delle ciliegie cilene) perché lì si pagano i prezzi più alti, dovuti al fatto che arrivano nel periodo dell’anno nuovo cinese, nel contesto del quale il colore rosso è un simbolo positivo.

Foto: Karl Krahmer

Questa di Tralcao è una situazione molto differente da quella che avevo potuto osservare precedentemente nell’hacienda di Don Gabriel a Nancagua, nella Valle Central. Nancagua è parte della principale regione di produzione frutticola per l’esportazione del paese e lo si vede nel paesaggio: piantagione dopo piantagione, azienda di packaging dopo azienda di packaging, quasi tutto il territorio piano per molti km quadrati è dedicato alla produzione di frutta per l’esportazione.

Senza dubbio quel territorio produce molto di più, ed è un uso del territorio molto più impattante rispetto al caso di Tralcao. È diversa anche la struttura della proprietà. Sono stato ospitato, anche lì generosamente, nell’hacienda di Don Gabriel, che coltiva una quarantina di ettari con prugne, pere e uva. È sempre un’azienda familiare (ce ne sono altre controllate da investitori cileni e stranieri che hanno migliaia di ettari), però, per quanto ci fosse un visibile impegno per un buon clima di lavoro, si notava la differenza di classe tra la casa padronale di Don Gabriel, gli impiegati in mezzo ed i lavoratori della raccolta di prugne, pagati ca. 22€ al giorno.

Anche a Tralcao non tutto è perfetto. Da un lato, per quanto l’agricoltura variegata sia sicuramente meno impattante sul territorio, e la generale attenzione all’ambiente legata anche alla cultura Mapuche, è comunque una produzione in cui la plastica (per proteggere le ciliegie dai danni importanti che fa la pioggia nel momento sbagliato) e gli insetticidi (per proteggersi contro i danni della Drosophila) sono presenti. Soprattutto però è difficile l’organizzazione di produzione e esportazione.

All’inizio i produttori erano organizzati per poter vendere insieme la propria frutta e avere più potere di negoziazione rispetto alle grandi aziende esportatrici. Quest’organizzazione però, dopo una storia complicata di conflitti, non esiste più. Si continuano ad aiutarsi a vicenda in molte cose ma ognuno vende per conto proprio e questo ha fatto desistere molti dall’esportazione e di essere delusi da come sono andate le cose negli ultimi anni. È poi soprattutto il rapporto con le aziende esportatrici che è difficile. Sono aziende grandi che sfruttano la posizione debole dei piccoli agricoltori, se pagano pagano dopo mesi, e solo alla fine si sa se pagheranno più o meno di quelli che sono stati i costi di produzione.

Certamente ora si potrebbe concludere che l’esportazione in sé è il male. Però mi pare che una produzione per l’esportazione in un contesto economico locale diversificato non debba essere giudicata negativamente con tanta facilità. Certo, c’è l’innegabile impatto di packaging e trasporto. Però è facile condannare l’esportazione di frutta in un paese come l’Italia che ne dispone in abbondanza tutto l’anno. Forse non è così facile nei molti luoghi del mondo dove, per siccità o freddo, la disponibilità di frutta e verdura fresca sono molto minori? E forse non è così facile per altri prodotti, non disponibili ovunque come tè, caffè, cacao oppure le materie prime per produrre il computer su cui sto scrivendo queste righe?

Mi ha fatto per esempio riflettere un viaggio in Patagonia, nell’estremo Sud del Cile. Lì le possibilità di produzione locale sono davvero ridotte e praticamente tutta la frutta e verdura viene dal Cile centrale (o dall’estero). Non è tecnicamente esportazione ma le distanze sono di diversi migliaia di km. E in un caso di Tralcao l’esportazione può essere un fattore di diversificazione economica. Anche vendere localmente ha i suoi rischi, innegabilmente.

Mi sembra che il modello di Tralcao sia una parte di un modello che pensa a un’economia dell’esportazione in quantità più ridotte e con modalità diverse da una produzione massiccia estrattivista. Che quantomeno per la produzione ed esportazione di prodotti agricoli potrebbe essere un modello da guardare con interesse anche in una prospettiva di decrescita. Quello che manca in questo caso è un’organizzazione equa e giusta del commercio internazionale.

 

Se volete, potete contattarmi qui: karl.kraehmer@polito.it

 

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